Il sindacato del giudice penale sul merito delle scelte imprenditoriali.

 

di Rossana Lugli

 

Sommario. 1. La vicenda. – 2. Il ricorso alla Business Judgment Rule. Definizione nella giurisprudenza e in dottrina. – 3. La tesi proposta dalla difesa dell’imputato in ordine all’applicabilità della BJR. – 4. Rigetto della tesi da parte della Corte di Cassazione e l’analisi del concetto di “dissipazione”. –

  1. I criteri utili per l’individuazione delle condotte dissipative. – 6.

Osservazioni conclusive.

 

1.  La vicenda.

Il procedimento penale, conclusosi con la pronuncia in commento, riguardava le vicende che hanno interessato il gruppo Alitalia, la cui capogruppo, Alitalia – Linee Aeree Italiane S.p.A., era stata dapprima posta in amministrazione straordinaria con D.P.C.M. del 29.08.2008 e poi oggetto di dichiarazione di insolvenza da parte del Tribunale di Roma in data 25.09.2008. Agli Amministratori Delegati che si erano susseguiti alla guida della società nel periodo 2004/2007, nonché al Responsabile Finanza Straordinaria e al Direttore Centrale Amministrazione e Finanza, venivano contestati plurimi e articolati fatti di bancarotta, in particolare condotte distrattive e dissipative. In particolare, tra le varie condotte contestate si ricorda, quale dissipazione, la gestione del settore Cargo – “ritenuta economicamente abnorme sia in ragione del numero esorbitante del personale di volo, sia per la carenza di ogni intervento di riorganizzazione e razionalizzazione volto a fronteggiare le ingenti e costanti perdite sistematiche, crescenti ed ingentissime” (CAPO A1). Ma anche l’operazione straordinaria di scorporo con la creazione di due entità, il Gruppo Alitalia Fly ed il Gruppo Alitalia Servizi, con la stipulazione di un contratto di servizi tra le due che prevedeva l’obbligo della prima di approvvigionarsi dalla seconda, secondo tariffe ritenute più alte rispetto al mercato di riferimento (CAPO A2).

E ancora, l’operazione di acquisizione, da parte di Alitalia S.p.A. del complesso aziendale delle società Volare Group, Volare Airlines, Air Europe, per un corrispettivo ritenuto incongruo rispetto all’effettivo valore di mercato (CAPO A3).

Infine, veniva contestata la dissipazione dovuta agli ingenti costi sostenuti

per l’attività di consulenza svolta da una società esterna.

 

 

 

 

 

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  1. Il ricorso alla Business Judgment Rule. Definizione nella giurisprudenza e in dottrina.

La difesa dell’imputato principale, Presidente e Amministratore Delegato di Alitalia, ha eccepito l’insussistenza di condotte dissipative, invocando l’applicabilità, anche in ambito penale, della regola della c.d. “Business Judgment Rule”.

Con il termine Business Judgment Rule s’intende “il divieto per il giudice [civile] di sindacare nel merito le scelte gestionali degli amministratori al fine di valutarne il grado di diligenza nell’adempimento dei compiti che tali soggetti sono chiamati a svolgere all’interno delle società di capitali1

La regola è stata sviluppata principalmente negli Stati Uniti, presso la Corte del Delaware, verso la fine del secolo scorso, in relazione alle prime azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società di capitali, e sviluppata negli anni a seguire2

Sostanzialmente, secondo questa regola deve essere escluso – in via generale

– il potere del giudice di sindacare le scelte imprenditoriali rispetto ad operazioni che hanno avuto un esito negativo in quanto si deve presumere che i directors e i managers delle società effettuino scelte gestionali con diligenza (duty of care) ed in assenza di conflitto di interessi (duty of loyalty). Non si tratta però di una presunzione assoluta.

Il sindacato del giudice permane infatti rispetto a tutte quelle ipotesi in cui le decisioni gestionali sembrano essere state adottate seguendo parametri macroscopicamente irrazionali e abnormi (aspetti che devono essere fatti emergere dall’attore nella causa civile) e quindi senza la dovuta diligenza.

Punto centrale per l’utilizzo della BJR è dunque l’attribuzione del corretto

significato al concetto di “duty of care” (ovvero del dovere di diligenza).

La giurisprudenza statunitense lo fa coincidere con l’obbligo di agire informati, la cui violazione si verificherebbe però unicamente in presenza di lacune “sistematiche” (e non occasionali) nel sistema informativo dell’impresa.

Solo in tali casi la regola della BJR non opererebbe, con la conseguenza che, attraverso il sindacato sulle scelte gestionali operate, il giudice potrebbe

 

 

  • Si precisa che le considerazioni qui riportate sono tratte da un accurato articolo di Marcello Sestieri: “La Business Judgment Rule nel diritto penale fallimentare”, in Rivista del Diritto Commerciale e del Diritto Generale delle Obbligazioni, 2019, 2, 231-276, cui si rimanda per un’analisi completa della materia.
  • Tale giurisprudenza si era formata in occasione di azioni promosse per contestare la valutazione, fatta dagli amministratori, di assets della società nel corso di operazione di fusione. Nello specifico, in tali procedimenti l’attenzione si era concentrata sulla possibilità di attribuire i danni occorsi alla società a carenze dei membri del consiglio di amministrazione nello svolgimento dei compiti

 

 

 

individuare la responsabilità civile dell’amministratore e condannarlo al

risarcimento dei danni cagionati con la propria condotta. Tale regola ha trovato applicazione anche in Italia.

Tuttavia, come sostenuto da autorevole dottrina, diversamente da quanto accade nel sistema giudiziario statunitense, in Italia la BJR può fungere solo da criterio interpretativo della “diligenza” che deve animare gli amministratori e non da vera e propria limitazione al potere del giudice3.

In Italia, infatti, il dovere di agire con diligenza e quello di perseguire l’interesse sociale in assenza di conflitto di interessi sono già prescritti da legge “scritta” e codificata all’art. 2932 del Codice civile.

Sul punto sono state scritte pagine illuminanti dall’avv. prof. Franco Bonelli, il quale ha affermato che non può rientrare nelle competenze professionali del giudice l’accertamento della natura irragionevole od erronea delle operazioni compiute dagli amministratori, posto che tale circostanza “rischia di penalizzare le attività più innovative e di essere influenzato dal “senno di poi”. Soprattutto, osserva, se gli “amministratori sono incapaci e inadatti a gestire la società: essi, però, non sono per ciò solo inadempienti ad alcun loro obbligo, sicché andranno sostituiti dai soci, ma non condannati a risarcire i danni causati dalle loro improvvide scelte (c.d. Business Judgment Rule: l’amministratore imperito o incapace va sostituito dai soci che lo avevano scelto, non va condannato)”4.

Anche la giurisprudenza civile ha concluso analogamente, affermando che il giudizio di responsabilità (civile) degli amministratori non ha ad oggetto le scelte gestionali in sé, neppure se si rivelino a posteriori dannose o frutto di decisioni inopportune, ma “il modo in cui le stesse vengono compiute”, ovvero la fase precedente alla scelta operata.

Ciò che è necessario verificare, per i Giudici, è infatti la presenza di un’omissione “”da parte dell’amministratore di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per la scelta di quel genere”. Omissione che “può configurare la violazione dell’obbligo di adempiere con diligenza il mandato di amministrazione e può

 

 

  • Sestieri, op. cit., p. 254, in cui riporta anche il testo di un altro autore secondo il quale “considerato che l’art. 2932 c.c. postula la qualificazione dell’obbligazione degli amministratori quale obbligazione di mezzi e non quale obbligazione di risultato – specificando la natura della diligenza richiesta -, la BJR si configura quale tecnica per la formulazione del giudizio di responsabilità nel caso in cui la prestazione del debitore sia quella di amministrare diligentemente una società” di G. MOLLO, La Business Judgment Rule tra tenuta giurisprudenziale e vantaggi di una cornice normativa per l’ordinamento italiano, in Riv. dir. impresa, 2017, p. 140).

4 F. BONELLI, La responsabilità degli amministratori di società per azioni, Milano, 1992, pp. 74 e ss.

 

 

 

quindi generare una responsabilità contrattuale dell’amministratore verso la

società” (Cass. civ., Sez. I, 28.04.1997, n. 3652)5.

Anche di recente è stato precisato che la diligenza richiesta agli amministratori si sostanzia soltanto nell’obbligo di agire informati, così che la sussistenza di una responsabilità dell’amministratore (in ambito civile) “non può mai investire le scelte di gestione, ma solo la diligenza mostrata …nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere” (Cass. Civ., Sez. I, 22.06.2017, n. 15470).

Interessante – ed è proprio ciò che in via decisamente innovativa invoca la difesa dell’imputato principale nel procedimento penale di cui alla sentenza in commento – è capire se tale regola possa trovare applicazione anche rispetto alla valutazione che delle medesime condotte viene fatta in sede penale.

 

3.  La tesi proposta dalla difesa dell’imputato in ordine all’applicabilità

della BJR.

Molto brevemente, nel corso per Cassazione si invoca l’applicazione della regola della BJR anche ai casi in cui le scelte imprenditoriali siano sottoposte alla valutazione di un giudice penale.

La difesa rileva come nei giudizi di primo e di secondo grado la decisione dei giudici sia di fatto consistita in valutazioni ex post delle scelte imprenditoriali, ovvero in un sindacato di opportunità aziendale, precluso ai giudici penali (e civili) in forza proprio della Business Judgment Rule.

Dopo aver ricordato come tale regola consista “in un canone ermeneutico che preclude ai giudici di esprimere valutazioni sulla diligenza degli amministratori attraverso i parametri dell’opportunità aziendale”, precisa – in termini del tutto condivisibili – che “a differenza della maggior parte degli altri professionisti, amministratori e funzionari non possono contare su modelli di comportamento accettati dalla collettività da poter invocare per proteggere le proprie scelte e dimostrare la ragionevolezza della propria condotta”.

Nello specifico è chiaro che “I medici hanno dei protocolli, così come gli ingegneri ne hanno, ma qualsiasi decisione di un amministratore è unica nel suo genere, perciò chi l’ha compiuta non può invocare alcun protocollo, alcuna

 

 

 

 

5 In questo senso, si colloca anche la riforma del diritto societario del 2003, che ha previsto l’obbligo per gli amministratori di agire con la diligenza del mandatario e di agire informati (eliminando invece il generico riferimento al solo dovere di diligenza).

 

 

pratica comunemente accettata, per giustificare il perché di un suo comportamento”6.

Perciò anche in sede penale si rende doverosa l’applicazione della BJR posto che “limita il sindacato giudiziale soltanto ad una verifica in ordine all’adozione da parte dei managers delle cautele necessarie per addivenire alla propria decisione in maniera consapevole”.

Nei casi in cui l’amministratore sia stato diligente nell’assumere le informazioni preliminari all’operazione da intraprendere, la scelta gestionale poi in concreto attuata non potrà essere sottoposta ad un giudizio di “opportunità economico-aziendale”, senza di fatto svolgere un “giudizio ex post basato soltanto sull’insuccesso dei risultati aziendali” – che dovrebbe essere vietato al giudice penale7.

 

6 La difesa afferma di “citare le parole del giurista statunitense che fece conoscere la BJR in Italia”: M.A. Eisenberg, Obblighi e funzioni degli amministratori e dei funzionari delle società nel diritto americano, in Giur. Comm., 1992, I, 624.

7 La difesa introduce anche l’interessante argomento della necessaria distinzione tra i concetti di “incoerenza assoluta” e “incoerenza relativa” dell’operazione, come criteri per individuare la natura dissipativa delle operazioni poste in essere dagli amministratori. Si dovrebbe parlare di “incoerenza assoluta” solo nel caso in cui la scelta gestoria fosse del tutto priva di ragioni economiche, ad esempio perché estranea all’oggetto dell’attività imprenditoriale e quindi senza alcuna possibile giustificazione nella logica d’impresa. Diversamente, l’incoerenza relativa sarebbe individuata da operazioni “inopportune” che, nonostante l’esito negativo, devono ritenersi aderenti all’attività imprenditoriale. Tale distinzione – continua la difesa – è fondamentale se si considera che la giurisprudenza in ordine al reato di bancarotta per dissipazione fa coincidere le condotte rilevanti sempre con concetti assoluti (quale ad esempio, l’estraneità dell’operazione rispetto agli scopi sociali) e mai relativi. Soprattutto però, precisa la difesa, “il fatto stesso che una scelta gestionale possa essere giudicata positivamente in determinate circostanze, e negativamente in altre, consente di qualificare detta decisione soltanto in termini relativi” e non assoluti, con la necessaria esclusione del reato di bancarotta per distrazione. Tale ultimo passaggio si riferisce sostanzialmente alla circostanza che secondo la Corte di appello – ma anche la Cassazione nella sentenza in commento afferma lo stesso – la scelta imprenditoriale deve essere valutata soprattutto in riferimento alle condizioni in cui versava la società al momento in cui l’operazione era elaborata e realizzata. Ma questo, si legge nel ricorso per Cassazione (ed è pienamente condivisibile), non ha nulla a che vedere con quella estraneità della scelta gestionale rispetto alla logica d’impresa che ne determinerebbe la natura dissipativa e ciò in quanto “una decisione posta in essere per uno scopo del tutto estraneo all’impresa, infatti, rimane tale a prescindere dalla situazione patrimoniale della società”. E viceversa. Ovvero una decisione presa per uno scopo coerente con la logica d’impresa rimane tale a prescindere dalle condizioni in cui versava la società al momento in cui la stessa veniva presa e del suo esito.

 

 

 

4.   Rigetto della tesi da parte della Corte di Cassazione e l’analisi del concetto di “dissipazione”.

Dopo un excursus sulle origini e sullo sviluppo della regola della BJR, in linea con quanto già eccepito dalla difesa, la Corte conferma che tale regola consiste in una presunzione operante in sede civile secondo cui gli amministratori agiscono su base informata, in buona fede e nell’interesse della società, con la conseguenza che il board of directors è esente da responsabilità per le decisioni assunte purché queste siano corrette ove valutate attraverso “una serie di fiduciary duties quali: The duty of care, the duty of monitor, the duty of inquiry, the duty of loyalty”.

La ratio di tale operare risiede per la Corte nella circostanza che “la gestione dell’attività di impresa comporta dei rischi, per cui estendere la cognizione del giudice [civile] anche al merito della decisione deprimerebbe l’attività di gestione, rallentando e compromettendo il processo decisionale, anche in riferimento a scelte corrette a livello procedurale – per qualità e quantità di informazioni acquisite – e sostanziale – in riferimento alla ragionevolezza al momento della deliberazione -, che verrebbero compromesse pur di evitare risultati negativi”.

Sorprendentemente però, nonostante vengano espresse queste e altre osservazioni molto chiare, la Suprema Corte conclude per l’inapplicabilità della BJR in campo penale.

Precisamente afferma che la BJR non può trovare applicazione nella valutazione in ordine alla sussistenza di reati che involgono le scelte imprenditoriali, quali la bancarotta fraudolenta, in quanto si tratta di una valutazione che investe elementi ulteriori e diversi, ovvero “la messa in pericolo del patrimonio sociale”.

Si sottolinea che quello della “garanzia dei creditori” è un tema su cui la Corte torna più volte nel corso della motivazione, individuandolo quale “cardine” principale su cui basare l’identificazione delle condotte penalmente rilevanti in caso di fallimento della società.

Rigettata la tesi della BJR, la sentenza in commento svolge tuttavia un interessante percorso in ordine al significato del concetto di dissipazione, ripercorrendo le interpretazioni susseguitesi nel corso degli anni.

In primo luogo, viene citata la giurisprudenza più risalente che individuava tale condotta nello “sciupare, distruggere, consumare e scialacquare il patrimonio”, ed emblematicamente, nel gioco (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 239 del 03.02.1967, Anselmo, Rv. 103662).

Successivamente la condotta in esame veniva definita come dispersione dei beni attraverso spese inconsiderate e meramente voluttuarie, o atti di prodigalità inconsulta (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 834 del 23.05.1967, Giannuzzi, Rv. 105174).

E ancora si era individuata la dissipazione in spese non necessariefatte dall’imprenditore a scopo voluttuario ovvero per soddisfare le esigenze di una

 

 

 

vita viziosa o la propria vanità” (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 894 del

22.06.1971, Bruno, Rv. 119090).

Si tratta di definizioni che, a parere della Corte, devono ritenersi ormai superate.

L’analisi si concentra quindi su un altro elemento: la natura di reato di pericolo della bancarotta. Questa – a detta della Corte – impone infatti al giudice di svolgere una valutazione ex ante, e caso per caso (ponendosi nella stessa situazione in cui si trovava l’amministratore al momento della scelta) per verificare – “se il soggetto agente abbia ponderato tutte le possibili conseguenze che l’opzione adottata, in uno specifico contesto economico ed imprenditoriale, avrebbe potuto determinare, nella prospettiva di accertare se fosse, quindi, prevedibile che la soluzione adottata potesse effettivamente mettere a repentaglio la conservazione della garanzia patrimoniale dell’impresa poi fallita”.

Il sindacato del giudice penale avrebbe quindi ad oggetto certamente la scelta imprenditoriale ma solo sotto il profilo della “ponderata prospettazione” da parte di chi l’ha realizzata di tutte le possibili conseguenze e ricadute sul patrimonio della società nella sua qualità di funzione di garanzia8 E ciò considerando anche che, trattandosi di reato di pericolo, sono sufficienti ad integrare la fattispecie in esame pure le condotte di “messa in pericolo” (e quindi non solo quelle di un danno) degli interessi dei creditori.

Precisa la Corte che proprio questa natura del reato rende, in concreto, “nevralgico” l’accertamento inerente alla scelta imprenditoriale, in un’ottica, tuttavia, delimitata.

Infatti, secondo la Corte, non vi è alcuna valutazione di discrezionalità e opportunità rispetto alla condotta “che, con giudizio ex ante, si ponga in drastico ed irrimediabile conflitto con la funzione di garanzia patrimoniale dei beni dell’impresa”, funzione che costituisce l’unica ottica rispetto alla quale il giudice penale può e deve valutare la coerenza delle scelte imprenditoriali con le finalità dell’impresa”.

Di conseguenza, il “parametro valutativo” che accomuna tutte le ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale deve essere individuato nella misura del divario tra la scelta imprenditoriale e la garanzia dei creditori.

Soltanto un divario minimo, per la Corte, escluderebbe ogni valutazione di opportunità tecnica sulle scelte operate dall’imprenditore, in quanto “una scelta notevolmente rischiosa in termini economici può senz’altro risultare

8 La Corte svolge poi un distinguo tra la fattispecie in esame e la bancarotta per distrazione, circostanza che la porta a tracciar ancor più i limiti del sindacato penale, affermando che nella condotta dissipativa “quello che rileva non è il distacco di beni dalla struttura patrimoniale dell’impresa, bensì il loro impiego in maniera distorta e fortemente eccentrica rispetto alla funzione di garanzia patrimoniale per effetto di consapevoli scelte imprenditoriali

 

 

 

penalmente irrilevante in riferimento a condizioni strutturali dell’azienda del tutto tranquillizzanti e prive di segnali di crisi al momento in cui la scelta stessa è stata adottata”.

 

5.  I criteri utili per l’individuazione delle condotte dissipative.

La Suprema Corte conclude comunque – e questa forse è la parte più innovativa e importante della sentenza in commento – individuando (senza alcuna pretesa esaustività) alcuni criteri utili per l’identificazione di condotte dissipative, e cioè:

  • la sussistenza di condotte seriali conseguenti a scelte imprenditoriali

complessivamente confliggenti con la tutela del ceto creditorio”;

  • la volontà di privilegiare “finalità estranee alla gestione dell’impresa o

concretamente confliggenti con la stessa”;

  • l’estremo livello di rischio di determinate operazioni”, anche in relazione alle condizioni patrimoniali dell’impresa, “che si ponga al di là del rischio fisiologico, dimostrabile attraverso la presenza di elementi anomali di natura oggettiva”;
  • “l’adozione di dette scelte in fasi in cui lo stato di crisi si era o meno

manifestato ed era o meno conosciuto dall’agente”.

Va rilevato peraltro che rispetto al caso di Alitalia, la Corte ha concluso per la natura dissipativa delle condotte poste in essere dall’imputato principale tenuto conto “della perdurante situazione di forte criticità in cui versava Alitalia, che aveva anche adottato un Piano industriale 2005/2008 orientato al raggiungimento del pareggio a partire dal 2006”.

La circostanza che le perdite di esercizio di Alitalia, stimate nel 2006 in circa 380 milioni di euro, alla fine del 2007 ammontassero a circa 4 miliardi di euro, secondo i giudici di legittimità avrebbe dovuto orientare ogni iniziativa gestionale unicamente verso il contenimento delle spese e il risparmio dei costi.

Per cui, le operazioni attuate, erano apparse idonee “a fondare la prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa” funzionale alla garanzia dei suoi creditori, con conseguente integrazione della dissipazione.

 

6.  Osservazioni conclusive.

La sentenza in commento ha il pregio di individuare compiutamente il concetto di dissipazione ed i confini del sindacato del giudice penale.

Tuttavia, alcune osservazioni critiche si rendono doverose.

A fronte di alcune considerazioni mosse nella sentenza in commento ci si domanda quale dovrebbe essere il comportamento dell’amministratore di una società che si trova in uno stato di difficoltà ad adempiere o di vera e propria crisi economico-finanziaria.

 

 

 

In particolare, ci si chiede se lo stesso dovrebbe astenersi dal compiere operazioni che presentino un certo ma non quantificabile margine di rischio per i creditori.

In alcune parti della sentenza, infatti, il Supremo Consesso sembra arrivare alla conclusione che la dissipazione, penalmente rilevante, sussiste in tutti i casi in cui l’operazione – che ha avuto esito negativo – ha diminuito il patrimonio della società nella sua funzione di garanzia dei creditori, e ciò, anche indipendentemente dalla coerenza o meno dell’operazione stessa rispetto all’oggetto sociale della società.

La conclusione che se ne trae (e che del resto viene riconosciuta nella stessa motivazione) è che scelte imprenditoriali rischiose potrebbero essere adottate solamente in società in bonis e senza difficoltà economiche/finanziarie.

È infatti evidente che in un contesto precario, di crisi, una qualsiasi operazione volta al salvataggio e al rilancio non può che mettere a repentaglio (o comunque in pericolo) la garanzia dei creditori, peraltro già stremata o addirittura inesistente.

Ne consegue – logicamente – che, qualora la società si trovi in stato di crisi (e ancora più se già in fase pre-fallimentare o comunque di dissesto) – gli amministratori dovrebbero prudenzialmente astenersi dal compiere operazioni che possano in qualche modo mettere a repentaglio il patrimonio della società e le garanzie dei creditori. Pena, la contestazione del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per dissipazione.

Tale conclusione però appare in stridente contrasto rispetto alla logica

d’impresa, con disastrose conseguenze sull’iniziativa imprenditoriale.

Infatti, gli amministratori di società in crisi, pur di non incorrere nel reato di bancarotta – che risulterebbe impossibile da escludere laddove il criterio per la sua configurabilità fosse unicamente la messa in pericolo della garanzia dei creditori – non avrebbero altra scelta ragionevole che astenersi dal compiere operazioni aventi un qualsiasi rischio di diminuzione del patrimonio sociale.

Così facendo, però, rinuncerebbero alla possibilità di risanare e rilanciare le attività della società, con l’inevitabile fallimento o messa in liquidazione della stessa.

Si tratta di una situazione che porta ad un insanabile paradosso:

l’amministratore che si astiene dal compiere operazioni rischiose, non risponderà del reato di bancarotta, ma allo stesso tempo potrebbe essere citato in un’azione di responsabilità civile per non aver adottato tutte le soluzioni necessarie a risolvere lo stato di crisi.

Al contrario, l’amministratore che realizza operazioni rischiose in società in crisi, potrebbe essere condannato per bancarotta fraudolenta per dissipazione, ma allo stesso tempo sarebbe esente da responsabilità civile, per la medesima condotta, in ragione del canone ermeneutico della BJR.

 

 

 

E allora ci si chiede se per l’individuazione delle condotte fraudolente dissipative non sia preferibile qualche altro criterio rispetto a quello della mera tutela dei creditori.

Ad esempio, valutando in via principale l’incoerenza dell’operazione rispetto alla logica di impresa ovvero che l’attività realizzata sia “completamente estranea ed esterna” agli scopi dell’impresa.

In pratica, un’operazione compiuta in un periodo di crisi societaria potrebbe dirsi dissipativa solo se non trova la propria giustificazione in attività di risanamento, di ripresa e di rilancio della società, le quali hanno per obbiettivo (e conseguenza) quello di aumentare – e non di diminuire – la garanzia dei creditori.

In tal modo, verrebbe ridotta se non eliminata la evidente dicotomia tra l’applicabilità della BJR nel giudicato civile e l’inapplicabilità della BJR nel giudicato penale.