Con una recentissima sentenza, la Corte di Cassazione ha affermato che può costituire il reato di estorsione di cui all’art. 629 c.p. la condotta del datore di lavoro che costringe i lavoratori ad accettare condizioni economiche più sfavorevoli con la minaccia del licenziamento (Cass. Pen., Sentenza del 2.02.2022, n. 3724).
L’art. 629 del Codice Penale stabilisce che “chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000”.
La vicenda.
Nel caso di specie alcuni lavoratori denunciavano il datore di lavoro che aveva minacciato di licenziarli se non avessero accettato di lavorare in condizioni che gli stessi avevano definito “disumane”.
Essi, infatti, effettuavano tutti i giorni numerose ore di lavoro straordinario, arrivando anche a venti ore al giorno, senza percepire la relativa retribuzione, occupandosi spesso di compiti estranei alle mansioni loro affidate e subendo altresì le continue vessazioni del datore di lavoro.
Risultava inoltre che l’accettazione di tali condizioni di lavoro non retribuite venisse posta come opzione alternativa alla prospettazione per i lavoratori della “libertà” di lasciare il proprio impiego. Con una costante rappresentazione, altresì, delle difficoltà che avrebbero avuto nel trovare un nuovo impiego.
Il Giudice di primo grado e la Corte d’Appello, dopo aver confermato la ricostruzione dei fatti come sopra esposta, escludevano tuttavia la sussistenza del reato di estorsione rilevando la mancanza di minacce nelle frasi proferite dal datore di lavoro.
In particolare, secondo la loro analisi, risultava dagli atti che il datore di lavoro dopo avere impartito le direttive, avrebbe sempre lasciato la libertà decisionale del lavoratore, nel caso in cui lo stesso non condividesse le direttive impartite, specificando infatti nelle mail che “se qualcuno non è d’accordo è libero di andarsene”.
Secondo i Giudici tali espressioni non potevano “interpretarsi come minaccia di licenziamento, neppure larvata”. Inoltre, doveva rilevarsi che non erano stati acquisiti “elementi volti a rappresentare una peculiare condizione di debolezza delle persone offese [n.d.r. i lavoratori], per le particolarità del contesto economico”.
La Sentenza della Corte di Cassazione.
La soluzione sopra riportata è stata ribaltata dalla Corte di Cassazione, la quale, riprendendo un precedente orientamento ha affermato che “integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate” (in tal senso, cfr. Sez. 2, Sentenza n. 11107 del 14.02.2017, Rv. 269905).
Bisogna infatti considerare, osserva la Cassazione, “che la stessa nozione di minaccia implica proprio che sia rimessa alla vittima del reato la scelta della condotta ultima da adottare, ma nella consapevolezza che ove questa dovesse essere diversa da quella rappresentata e pretesa dal soggetto attivo, si avrebbe la conseguenza del male ingiusto prospettato”.
Infatti, prosegue, caratteristica tipica del reato di estorsione è proprio “la cooperazione della vittima mediante la coartazione della sua volontà”.
Pertanto, la circostanza che la vittima del reato abbia comunque un margine di scelta non esclude che il comportamento dell’altra parte [nel caso di specie il datore di lavoro] integri una minaccia.
Nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, la circostanza che il datore di lavoro abbia detto al lavoratore che era “libero di andare via” ha di fatto posto il lavoratore di fronte all’alternativa di “accettare le condizioni di lavoro imposte dal datore di lavoro o di perdere il lavoro” ed è perciò “del tutto indifferente che tale evenienza si possa realizzare per una decisione “volontaria” del lavoratore o a iniziativa del datore di lavoro”.
A ciò si aggiunga che nel caso in esame tale ultima evenienza assume rilievo penale, secondo la Suprema Corte, perché le condizioni di lavoro indicate come alternativa alla perdita del lavoro sono inique e illegittime “in quanto intese a sottoporre il lavoratore a turni di lavoro ininterrotti, ben oltre gli orari pattuiti, per espletare attività non rientranti nelle proprie mansioni, con un trattamento retributivo del tutto inadeguato rispetto alle ore lavorative effettivamente svolte e alle attività effettivamente espletate… Il tutto accompagnato dalle condotte vessatorie del datore”.
Si tratta di circostanze che rendono configurabile il reato di estorsione ai danni dei lavoratori.
Rispetto poi all’ulteriore requisito richiesto dai giudici di primo e secondo grado per la sussistenza del reato di cui all’art. 629 c.p., ovvero una “peculiare condizione di debolezza” della persona offesa dal reato [i lavoratori], la Suprema Corte ha rilevato che ciò che “ammanta di rilievo penale la condotta de quo non sono le condizioni economico-ambientali o personali del lavoratore, ma il fatto che il datore di lavoro coarti il lavoratore, nel senso di costringerlo ad accettare condizioni di lavoro inique e deteriori dietro la minaccia dell’interruzione del rapporto di lavoro, restando indifferente il contesto socio ambientale e familiare in cui tale coartazione viene attuata”.
La validità della sentenza ai soli effetti civili.
La sentenza della Corte d’Appello, pertanto, è stata annullata dalla Corte di Cassazione con rinvio dinanzi al solo giudice civile competente, rimanendo fermi gli effetti penali della sentenza di assoluzione pronunciata in secondo grado
Ciò si è verificato in quanto la sentenza penale di assoluzione non era stata impugnata dalla Procura della Repubblica in primo grado, né dalla Procura Generale in Appello, ma solamente dai lavoratori costituiti parti civili.
Pertanto, in tale ipotesi, vige il principio del divieto di reformatio in peius e la sentenza di assoluzione non può essere “ribaltata” nel grado successivo.
Di conseguenza l’impugnazione riguarda soltanto gli effetti civili che, nel caso di specie, si traducono nella possibilità per i lavoratori di ottenere un risarcimento del danno in sede civile per una condotta ritenuta penalmente rilevante ma per cui non è intervenuta sentenza di condanna.